Da non confondere con l’ipertensione in gravidanza, e nemmeno con l’ipertensione gestazionale, la preeclampsia è una condizione in cui, ai livelli alti della pressione, si aggiungono altre complicanze, come la perdita di proteine e la presenza di edemi. Come afferma l’aggiornamento delle linee guida statunitensi della U.S. Preventive Services Task Force pubblicato sulla rivista Jama, le donne incinte devono controllare regolarmente la pressione per individuare i primi segnali di ipertensione ed, eventualmente, di preeclampsia.
Tuttavia, anche se tutte le donne possono sviluppare questa condizione, non bisogna fare allarmismo e, come sottolinea Giuseppe Crippa, direttore dell’unità operativa di ipertensione e malattie cardiovascolari correlate dell’ospedale Guglielmo da Saliceto di Piacenza (puoi chiedergli un consulto qui), bisogna fare una netta distinzione tra ipertensione cronica, ipertensione gestazionale e preeclampsia.
«Si parla di ipertensione cronica quando la pressione alta era presente già prima della dolce attesa o quando i valori si alzano prima della ventesima settimana. Non è raro, però, che le pazienti con un’ipertensione arteriosa pre-gravidanza, normalizzino la loro pressione durante i nove mesi, sospendendo addirittura l’utilizzo di farmaci. Si parla di ipertensione gestazionale, invece, quando i valori pressori alti si riscontrano dopo la ventesima settimana. È poco frequente: solo il 4-6% di donne va incontro a questa situazione e una percentuale ancora minore (circa l’1-2%) sviluppa preeclampsia, un’ipertensione gestazionale complicata da un’alterazione della funzionalità renale, in particolare da proteinuria».
Con quale frequenza dovrebbero controllare la pressione le donne in dolce attesa?
«Almeno una volta al mese in occasione della visita di controllo dal ginecologo. Dato che la misurazione della pressione durante la gravidanza può presentare qualche problema interpretativo, è bene che sia il medico a effettuare il controllo. In presenza di valori alterati, invece, le misurazioni dovranno essere più ravvicinate. Farlo a casa con strumenti automatici va bene, ma a volte possono sottostimare la pressione diastolica, quindi dovrebbero essere usati solo apparecchi con una validazione per l’utilizzo in gravidanza».
Secondo gli esperti statunitensi il controllo della pressione è il metodo più efficace per lo screening di eventuali complicanze durante la gravidanza. Quali sono i valori pressori che devono mettere in allarme?
«Fino a 140-90 è un valore normale, mentre un valore uguale o superiore è inizialmente patologico. Se siamo dopo la ventesima settimana, si parla di ipertensione gestazionale, ma non è questo il limite a cui noi esperti facciamo riferimento per iniziare il trattamento, cosa che invece accade al di fuori della gravidanza. La cura si inizia generalmente solo quando la pressione supera i 160 per la massima e i 100 per la minima. Può sembrare paradossale, ma mentre trattiamo un iperteso cronico con l’idea di prevenire per anni la possibilità di danni cardiovascolari, la breve durata dell’ipertensione gestazionale, che compare intorno al quinto mese e che presumibilmente si risolve con il parto, ci porta a non somministrare farmaci finché non è strettamente necessario, quindi solo nei casi più severi di ipertensione».
La pressione alta in gravidanza rappresenta un pericolo per la salute della mamma e del bambino?
«Se è controllata da esperti che conoscono bene sia la patologia ostetrica che quella internistica o cardiologica, no. Infatti, i risultati clinici per la madre ipertesa e per il nascituro risultano sostanzialmente sovrapponibili a quelli della madre non ipertesa. Tuttavia, quando l’intervento terapeutico è necessario, il mancato trattamento può dare luogo a complicanze, sia per la mamma che per il nascituro ».
Come viene diagnosticata, invece, la preeclampsia?
«Essendo un disturbo immunologico legato a un’alterazione della placenta, la preeclampsia comporta vasocostrizione e cambiamento di permeabilità a livello renale. A sua volta, questa condizione genera una perdita di proteine, che diminuisce la capacità di trattenere i liquidi nei vasi sanguigni e provoca la comparsa di edemi, cioè gonfiori, non solo alle caviglie, ma anche sul volto e sulle mani. Nonostante la presenza di edemi non sia più considerato un fattore diagnostico determinante per distinguere la preeclampsia dall’ipertensione gestazionale, nella paziente preeclamptica la ritenzione dei liquidi si manifesta con gravità, quindi l’edema è un segnale abbastanza evidente che ci aiuta a diagnosticare la patologia».
In cosa può evolvere la preeclampsia?
«In eclampsia, una condizione estremamente grave che si manifesta con scompenso cardiaco, dolori toracici importanti, edemi e crisi epilettiche, o nella sindrome HELLP, che oltre a tutti i sintomi dell’eclampsia, presenta anche la comparsa di emolisi, cioè la rottura di globuli rossi che causa una forte anemia e una riduzione della quota piastrinica nel sangue, che espone la donna a emorragie. È una sindrome estremamente rara».
Le donne con ipertensione pregravidica o con ipertensione in gravidanza hanno un rischio maggiore di sviluppare queste condizioni?
«No. Preeclampsia, eclampsia e sindrome HELLP non sono particolarmente frequenti nelle donne e nemmeno in quelle che hanno ipertensione in gravidanza. L’ipertensione gestazionale, invece, espone la paziente a un rischio più elevato di ipertensione».
Facciamo un passo indietro: se la donna sviluppa preeclampsia, come viene gestita e trattata la patologia? Le linee guide americane parlano di un controllo più serrato delle condizionali materne fino all’uso di farmaci anti-ipertensione…
«Molto efficace nelle pazienti preeclamptiche è la profilassi con aspirina, una terapia semplice e ben tollerata che può essere utilizzata dopo la ventesima settimana. Se la situazione rischia di evolvere in eclampsia, invece, l’unico modo per rimediare è l’induzione del parto o il ricorso al parto cesareo, perché è proprio la placenta che provoca il disturbo. Naturalmente, è una decisione legata all’epoca gestazionale della donna, perché l’induzione del parto, in tutta sicurezza, può essere fatta solo alla 36esima settimana. Se non si è ancora arrivati a questo punto della gravidanza, ma il caso lo richiede perché si rischia una crisi eclamptica (in cui il rischio di mortalità del feto è molto alto), si deve far nascere il bambino prematuramente».
Il fatto che la preeclampsia evolva in eclampsia significa che la donna non è stata seguita bene?
«Non necessariamente, perché la crisi eclamptica o la sindrome HELLP possono insorgere indipendentemente dall’adeguatezza del trattamento effettuato dal medico. Sono evoluzioni rapide di cui si può calcolare il rischio, ma che non si possono prevedere con certezza. Dopotutto, la maggior parte delle pazienti con ipertensione gestazionale o preeclampsia ha un’ottima evoluzione della gravidanza e arriva al parto senza complicanze, esattamente come le donne che non hanno problemi».
È corretto dire che tutte le donne sono a rischio di sviluppare preeclampsia?
«Sì, però esistono dei fattori di rischio. La prima gravidanza, per esempio, pone più a rischio rispetto alla seconda, come anche due gravidanze intervallate da molto tempo, oltre i dieci anni. Il rischio aumenta anche dopo i 35 anni, nelle donne diabetiche, in quelle in sovrappeso oppure obese e nelle donne che cambiano paternità. Il motivo ancora non si sa, ma è stato dimostrato che questa situazione aumenta la possibilità di preeclampsia».
Se una donna è predisposta si può fare prevenzione in qualche modo?
«Come la prevenzione di ipertensione arteriosa cronica nel soggetto non in gravidanza fa capo alla dieta, anche nella donna in dolce attesa una corretta alimentazione, con l’attenzione a non ingrassare più di un chilo al mese, è importante per tenere lontana l’ipertensione. Non è invece consigliato seguire una dieta iposodica, un caposaldo della prevenzione dell’ipertensione fuori dalla gravidanza, perché può ridurre la formazione di liquido amniotico e quindi dare una sofferenza al bambino».
Giulia Masoero Regis
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