Bastano una penna e un foglio. O una tastiera. O un diario logoro da nascondere nel cassetto, tra le cose più segrete. Per combattere l’angoscia e per sentirsi meglio, un aiuto arriva dallo scrivere. Dal mettere nero su bianco le emozioni, le esperienze, i ricordi. Belli o brutti che siano. L’ultima conferma viene dall’Università di Chicago.
Gli studenti che sfogano le paure su un foglio di carta superano i test con più facilità, spiegano gli psicologi Sian Beilock e Gerardo Ramirez nello studio pubblicato su Science. I due ricercatori hanno verificato l’efficacia antistress della scrittura chiedendo a centinaia di ragazzi di buttare giù le loro preoccupazioni dieci minuti prima dell’esame di maturità. Chi ha seguito il consiglio, soprattutto i più ansiosi, ha ottenuto risultati migliori.
Ma cimentarsi con carta e penna non serve solo a prendere un voto più alto. «Scrivere di qualcosa che ci è accaduto o che ci tormenta aiuta a dare una nuova collocazione all’evento nella nostra mente», dice Luigi Solano, docente di psicologia alla Sapienza di Roma e autore del libro Scrivere per pensare (Franco Angeli, 2009). «In questo modo riusciamo a guardare i fatti da un altro punto di vista: in un certo senso disintossichiamo la mente, dando alle cose il giusto peso e la giusta dimensione».
Uno studio della Wilfrid Laurier University nell’Ontario, in Canada, per esempio, ha dimostrato che chi è vittima di ingiustizie al lavoro trova sollievo stilando pensieri ed emozioni sul mobbing (leggi: scopri se sei vittima di mobbing). La rabbia diminuisce, la considerazione di sé aumenta, spiega la ricerca apparsa nel 2009 sul Journal of Applied Psychology. E non è l’unico esempio di scrittura-terapia: la pratica si sta sempre più diffondendo in ambito clinico.
Un diario per allontanare il dolore
Già nel 1999, alla North Dakota State University, 71 malati di asma o artrite avevano mostrato un miglioramento (leggi: lo studio) tenendo un diario sulle loro esperienze di vita più dolorose. E oggi la tecnica è applicata a molti tipi di disturbi o problemi, dai postumi degli interventi chirurgici alla perdita del lavoro. M
ario Calabresi, direttore del quotidiano La Stampa, nel 2007 ha raccontato in un libro la morte di suo padre, il commissario Luigi Calabresi, assassinato negli Anni di piombo, nel 1972. «Scrivere Spingendo la notte più in là è stato un percorso faticoso e di sofferenza», spiega. «Ma proprio per questo mi ha consentito di affrontare il dolore e la mancanza di mio padre. E quando ho finito, mi sono sentito liberato, pacificato con la mia storia». E pronto a diventare, a sua volta, genitore: «A un certo punto ho avvertito l’urgenza di finire il libro. Solo dopo ho capito perché: stavano per nascere le mie due gemelle e io avevo bisogno di chiudere delle ferite ancora aperte, per potermi dedicare a loro».
All’Università della California, a San Diego, hanno verificato, con uno studio pubblicato sul British Journal of Health Psychology, che gli omosessuali affrontano meglio le possibili difficoltà sociali se le mettono per iscritto, in una sorta di diario, per almeno due mesi. I tempi moderni hanno portato con sé una moltiplicazione della scrittura per piacere, come hobby. Lo dimostrano su internet i blog, i forum, il resoconto dei propri pensieri sui social network come Facebook.
«Il primo approccio alla scrittura avviene quasi sempre attraverso la narrazione personale», spiega Carmen Gelati, ricercatore e docente di psicologia all’Università Bicocca di Milano. «Infatti, i primi testi dei bambini alla scuola primaria sono spesso racconti di esperienze vissute. Purtroppo il mondo del lavoro fa sì che questo genere autobiografico venga spesso abbandonato, soppiantato da relazioni tecniche e lettere formali. E quando viene riscoperto in età adulta, si rivela un piacere puro».
Parlare di se stessi, però, non significa buttar giù parole senza alcuna regola sintattica o impalcatura formale. Ogni testo, anche quello che leggeremo solo noi, ha le sue convenzioni. E i suoi obiettivi: cosa voglio raccontare, perché, come. Se mancano questi mattoni, la pagina diventa un ammasso di frasi che non portano a comprendere quello che attraversa il nostro cuore e la nostra mente, che non ci aiuta a disintossicarsi davvero dai nostri grumi interiori. Non aiuta a capirci né a farci capire.
«Scrivere fa parte di quel ristretto gruppo di piaceri dell’età adulta», spiega lo scrittore Antonio Scurati, vincitore del Campiello, nel 2005, con Il Sopravvissuto (Bompiani). «Ci dice qualcosa sul significato di crescere: abbandonare i piaceri più facili per quelli più difficili è tipico del diventare grandi». Lui, che con le parole gioca per professione, non pratica «forme di scrittura privata». Perché i narratori, dice, anche quando tengono un diario lo pensano per un pubblico.
Creare romanzi per capirsi di più
Non se ne stupisce il ricercatore Gian Luca Barbieri, docente di psicologia dinamica all’Università di Parma, autore del saggio Tra testo e inconscio (Franco Angeli, 2007). «Quando si affronta il foglio bianco l’altro c’è sempre», spiega. «Anche in un diario. In questo caso il destinatario è il lettore che sta dentro di noi». Non c’è, dunque, una vera differenza tra scrivere per sé e per gli altri.
E, secondo la psicoanalisi, neanche tra cimentarsi in un’autobiografia o nella narrativa. «Freud sosteneva che i personaggi di un romanzo sono parti di noi che si materializzano sul foglio», nota Barbieri. Addirittura, imbastire una storia anziché le proprie memorie, lasciare da parte l’Io e passare alla terza persona può servire a capirsi ancora di più: la distanza che separa l’autore dai protagonisti di un racconto permette di affrontare nodi che in prima persona magari non si riuscirebbe a guardare in faccia. Scrivere, comunque sia, è un viaggio interiore. E chi è pronto a partire, può tirare fuori carta e penna o il notebook e lasciare uscire le parole.
Federica Maccotta – OK Salute e benessere
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