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Diabete: la Trip Therapy ha funzionato davvero?

Dopo mille giorni di viaggio per il mondo, Claudio Pelizzeni è tornato. Il suo diabetologo, Stefano Genovese, ci spiega come è cambiato il suo fabbisogno di insulina e cosa si può imparare da questa esperienza

Sarebbe bello sei i medici potessero prescriverla come prescrivono una nuova medicina, ma la Trip Therapy intrapresa da Claudio Pelizzeni non si trova nelle farmacie e nemmeno negli ospedali. Affetto da diabete di tipo 1 da quando ha 9 anni, Claudio nel 2014 ha deciso di mollare il suo lavoro e partire per un giro del mondo di mille giorni senza prendere neanche un aereo.

Organizzato nei minimi dettagli con il diabetologo Stefano Genovese, responsabile dell’Unità di Diabetologia e Malattie Metaboliche – Irccs MultiMedica di Sesto San Giovanni, che ha seguito e monitorato Claudio in tutti i suoi spostamenti mediante apparecchi diagnostici di ultima generazione, il viaggio non è stato solo il raggiungimento di un sogno, ma si è trasformato in un investimento a lungo termine che, cambiando lo stile di vita di Claudio, ha avuto anche delle conseguenze sulla sua malattia.

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Gli effetti della Trip Therapy

Il 14 marzo 2017, a un mese dal ritorno a Milano e a quasi due anni dalla partenza, Claudio è stato visitato dal dottor Genovese, che ha verificato gli effetti della Trip Therapy. «Prima del viaggio Claudio pesava 82 chili e seguiva una terapia multiiniettiva di circa 58 unità di insulina al giorno. Dopo mille giorni di viaggio ha perso 8 chili: le diverse diete e la maggiore attività fisica hanno ridotto il suo fabbisogno insulinico a 48 unità giornaliere» spiega l’esperto.

Dalla Russia all’Africa, passando per la Mongolia, l’India, l’Australia e l’America, Claudio si è ritrovato infatti ad affrontare diete diverse e svariati esercizi fisici: non solo perché spostandosi senza aerei si è dovuto più volte arrangiare con lo zaino in spalla (ha fatto di media 20 chilometri al giorno), ma anche perché nei Paesi visitati ha svolto diverse attività sportive, come il trekking in alta montagna sull’Himalaya o le immersioni subacquee in Indonesia, Thailandia e Australia.

L’importanza dell’attività fisica

Cosa insegna alle persone con diabete questa esperienza? «I buoni risultati ottenuti non significano che chiunque è affetto dalla patologia debba partire per fare il giro del mondo» sottolinea Genovese. «Ma significano che una persona diabetica può affrontare una sfida impegnativa come quella affrontata da Claudio senza difficoltà, a patto di usare la testa e la consulenza di un esperto, traendone anche benefici nella gestione della malattia».

Di fatto, la Trip Therapy conferma ulteriormente che il movimento, da sempre raccomandato ai pazienti diabetici (qui le ultime linee guida redatte dalla Canadian Diabetes Association), è fondamentale per il controllo glicemico e invita chi è affetto dalla patologia a non precludersi nessuna attività o passione sportiva. «Con il giusto monitoraggio della glicemia, i diabetici possono fare qualsiasi sport. Claudio nelle isole Andamane ha fatto regolari immersioni subacquee: l’importante era scendere sempre con un accompagnatore e con una glicemia non troppo elevata» spiega l’esperto.

I benefici della meditazione

Come era già emerso dopo circa cinque mesi di viaggio, ha giocato un ruolo fondamentale anche la meditazione. Non solo intesa come pratica, ma anche come maggiore concentrazione su se stessi e sulle proprie abitudini, alimentari e non, durante il viaggio. «È stata un’esperienza molto meditativa, perché Claudio ha passato molto tempo da solo. Questo gli ha permesso di pensare più a se stesso e alla sua terapia e, di conseguenza, a gestire meglio la malattia stando più attento a cosa mangiava e a cosa faceva» spiega il diabetologo.

La conservazione dell’insulina

Oltre ai risultati clinici, il viaggio di Claudio è interessante anche dal punto di vista pratico, perché bisogna pensare che questo ragazzo è partito con due zaini e un marsupio e una scorta di insulina per sette-otto mesi (dopo, lo ha raggiunto un amico con un’altra scorta). Chi è affetto da diabete di tipo 1, infatti, è dipendente da questo ormone e non può stare assolutamente senza.

«Per conservarla abbiamo usato la carta di giornale, che è un fantastico isolante» racconta Genovese. «Ogni volta che Claudio si fermava in un luogo con un freezer, metteva dei cubetti di ghiaccio a raffreddare, per poi impacchettarli nella carta di giornale con le penne di insulina». La scelta di Claudio di non utilizzare un microinfusore di insulina è legata sia alla difficoltà di reperire set infusionali di ricambio nei Paesi visitati (non sono venduti ovunque e vanno sostituiti ogni 3-4 giorni), sia a una motivazione personale. «Claudio non ama questo strumento perché gli dà la sensazione di avere una protesi» spiega l’esperto.

Il monitoraggio flash della glicemia

No al microinfusore, ma sì ai sensori continui di glicemia, di cui Claudio ha provato diversi modelli. Oltre ai tradizionali dispositivi CGM (Continous Glucos Monitoring), anche il primo FGM (Flash Glucos Monitoring), un sistema di monitoraggio flash arrivato in commercio nell’ottobre 2014, quando lui si trovava in India nelle isole Andamane.

Tondo e piatto (35 millimetri di diametro e 5 di altezza), si applica nella parte posteriore del braccio e può durare fino a 14 giorni. In che modo si differenza dai dispositivi CGM? «I sensori tradizionali hanno un display che comunica di continuo i livelli della glicemia, con allarmi che avvisano in caso di ipoglicemia o iperglicemia» spiega Genovese. «Il device FGM misura la glicemia costantemente come i CGM, ma grazie a un piccolo lettore simile a uno smartphone permette al paziente di “scansionare” il livello e l’andamento della glicemia quando vuole, senza avere l’invadenza psicologica del CGM, che dà allarmi e fornisce costantemente un dato».

Quando non ha utilizzato il sensore, Claudio si è affidato alla misurazione della glicemia manuale. In questo caso, ha giocato un ruolo fondamentale l’attenzione alla pulizia e il ricambio frequente degli aghi, ma, ancora una volta, viaggiare e affrontare realtà lontane (anche igienicamente) dalla nostra non ha rappresentato un ostacolo alla gestione della malattia.

Giulia Masoero Regis

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