Il colesterolo non scende nonostante il vostro stile di vita quasi monacale, fatto di sacrifici a tavola e in palestra? Allora potrebbe essere un problema di famiglia. Per 250.000 italiani il colesterolo alto non dipende soltanto dalle cattive abitudini di vita, ma da una causa genetica, che impedisce all’organismo di eliminare efficacemente dal sangue il colesterolo “cattivo”. Si tratta della cosiddetta ipercolesterolemia familiare, una malattia ancora poco conosciuta, diagnosticata e trattata: si stima che in Italia soltanto l’1% dei pazienti abbia ricevuto una diagnosi corretta, contro il 71% dell’Olanda e il 43% della Norvegia.
Lo studio sul colesterolo familiare
È quanto dimostra l’indagine Colesterolo, una questione di famiglia, condotta da CittadinanzAttiva, tramite le sue reti del Tribunale per i diritti del malato e del CnAMC (Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici), grazie al contributo non condizionato di Sanofi. L’indagine ha coinvolto oltre 1.300 persone, con l’obiettivo di rilevare il livello di consapevolezza rispetto alla patologia e ai suoi rischi, nonché la qualità delle cure ricevute dai pazienti affetti da ipercolesterolemia familiare e le criticità nella gestione quotidiana dei sintomi.
Il 27% ha ipercolesterolemia familiare
Gli intervistati (in prevalenza donne tra 30 e 41 anni) hanno problemi di colesterolo elevato: il 37% soffre di ipercolesterolemia e oltre il 27% di ipercolesterolemia familiare. Il 27% soffre di ipertensione, il 9,6% di elevati livelli di trigliceridi e il 9% è obeso. Un terzo del campione identifica correttamente le dislipidemie come una malattia legata al sovrappeso; poco meno della metà (45%) riconosce l’ipercolesterolemia familiare come una elevata concentrazione di colesterolo nel sangue, ma solo poco più di un terzo (34,6%) sa che è di origine genetica.
Come l’hanno saputo
Più di un cittadino su dieci dichiara di aver avuto il primo sospetto della patologia in maniera quasi autonoma, cercando sul web, reperendo informazioni in tv o sui giornali; il 40% grazie al fatto di avere un familiare già affetto, il 29,4% è stato invece diagnosticato dal medico di famiglia; solo l’1,5% ha avuto diagnosi in età infantile grazie al pediatra di famiglia. Dopo la prima diagnosi, il 60% afferma che i familiari sono stati sottoposti agli esami diagnostici, ma c’è anche un 15% che dichiara che il proprio medico non ha ritenuto necessaria l’estensione degli stessi a tutta la famiglia.
Difficile trovare gli specialisti e lunghe file d’attesa
Più di un paziente su tre afferma di aver difficoltà ad individuare uno specialista e quasi il 39% dichiara che c’è poca collaborazione tra specialista e medico di famiglia. Più di un paziente su quattro lamenta la carenza di reparti o centri specialistici. Una volta scovato il centro, le liste d’attesa per visite ed esami specifici per il controllo della malattia sono particolarmente lunghe. Il 23% di chi ha ricevuto una diagnosi resta però senza una terapia. Fra chi l’ha ricevuta, nell’83% dei casi si tratta di una terapia farmacologica. Non allo stesso modo viene, invece, prescritta la dieta (68,3%) e l’attività fisica (65,6%). Un paziente su quattro (21%) dichiara di non essere stato sottoposto a ulteriori accertamenti.
Poca prevenzione
Altra nota dolente è la prevenzione: un intervistato su due dichiara di avere difficoltà nello svolgere una regolare attività fisica, circa il 42% a seguire una corretta alimentazione ed il 18,2% ad abbandonare la cattiva abitudine del fumo. Cambiare lo stile di vita poco salutare non è facile, a causa dell’abitudine ad una vita sedentaria (24,8%) ma anche perché l’attività a pagamento è costosa (20,7%), perché mangiare sano è faticoso (24%). La prevenzione è lasciata alla “buona volontà” del singolo individuo e non viene incentivata né sotto il profilo formativo ed informativo, né sotto il profilo economico, né tantomeno quello psicologico.
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