«Da quando sono bambino ogni tanto mi prende un senso di sofferenza e di solitudine», racconta Raoul Bova. «Allora mi chiudo in me stesso e ho bisogno di stare solo».
Ecco la confessione dell’attore a OK.
«Mi accompagna da quando sono un bambino: un senso di oppressione, di oscurità, di buio. Ogni tanto riemerge, a sorpresa (sempre meno, per fortuna, da quando sono padre di due bellissimi piccoli, Alessandro e Francesco). Sto male, mi sento inadeguato, avverto la sofferenza del mondo intorno a me, vado giù, a volte sfioro l’abisso, e allora ho bisogno di rimanere solo, di chiudermi in una stanza, senza parlare con nessuno, fino a quando riemergo.
Chiara, mia moglie, ormai capisce al primo istante quando sto per scivolare lungo questa china. Nota i miei sguardi, sente che le mie frasi rallentano, che le parole diventano più rare. E vede che estraggo un mio piccolo, dolce, antidoto: una barretta di cioccolata, che di solito tengo nascosta tra le mie cose. “Oddio, stai male”, mi dice, se mi scopre con questo amuleto.
Lei avversa moltissimo la cioccolata. Non tanto perché pensa che mi faccia ingrassare, o danneggi il mio corpo. Ma perché è il segnale che sono dentro la mia fase down, dolorosa, difficile.
Quando ero un adolescente avevo una serie di manifestazioni fisiche anche forti, evidenti: dopo una gara di nuoto perduta (ero un atleta appassionato) mi venivano mal di testa violenti, che mi costringevano a stare a letto per giornate intere. Vomitavo, avevo una paura tremenda del confronto con gli altri e una timidezza paralizzante, devastante.
Per un anno non ho parlato
Per un anno non sono quasi riuscito a parlare: mi esprimevo solo con pochi frammenti di frase, e la mia famiglia appariva preoccupatissima. Avrei voluto interagire con le persone intorno a me, ma non riuscivo. E neppure il mio aspetto fisico mi aiutava. Ero forse bello come lineamenti, ma brutto, pochissimo affascinante come personalità.
E infatti alle ragazze piacevano altri miei compagni: quelli con la capacità di esprimersi, di raccontare, di far uscire le loro emozioni. Ecco, mi sono sentito, per molti anni, prigioniero di una gabbia, che la mia ipersensibilità rinforzava di continuo. Ero io, ero dentro a quella costruzione così rigida, ma nessuno mi vedeva, e poteva decifrarmi, far emergere la parte migliore, più ricca di me.
Ho lottato, e mi impegno tuttora duramente contro tutto questo, non per niente prediligo i ruoli da combattente, da eroe, a costo di risultare monotono.
Non mi hanno aiutato gli psicologi, o gli psichiatri: non li ho mai cercati, forse sbagliando, perché non volevo sentirmi “malato”. Però i miei genitori, le mie sorelle, e poi alcuni insegnanti di recitazione sì, moltissimo.
Soprattutto Sandra Seacat, all’Actors Studio di New York. Ricordo che una volta mi disse, durante una lezione: “C’è qualcosa di troppo teso nel tuo corpo, rilassati di più”. Non riuscivo a capire che cosa intendesse: tutto sembrava a posto nei miei movimenti, le mani, l’espressione del viso… “Levati le scarpe!”, ordinò.
Ho dato retta a Sandra, contro voglia. E con grande sorpresa ho visto che le dita del piede erano contratte, serratissime, stritolate verso il basso.
Piano piano, prima grazie al nuoto e poi attraverso il mio lavoro di attore, sono uscito da questo guscio, così crudele.
Ma anche alla mia prima apparizione televisiva, per esempio, ci sono riscivolato dentro, a tradimento: era un programma di Mara Venier, che mi aveva invitato per parlare del mio primo film, Una storia italiana, diretto da Stefano Reali, sui fratelli Abbagnale (i campioni di canottaggio).
Ho fatto scena muta, in diretta, davanti alla telecamera, per dieci minuti. Non ho pronunciato praticamente una parola.
E lei, allora, Mara (che da quel giorno è diventata una mia cara amica), mi ha coccolato, e con grande maestria ha trasformato questo mio blocco in una tenera rappresentazione. Io in realtà stavo terribilmente male.
Non riesco a sottrarmi ai momenti di tristezza
Non so se abbiate visto il film Sbirri, di Roberto Burchielli: una storia girata in parte fra i poliziotti veri della squadra antidroga di Milano. Anche quello, per me, è stato un momento importante di liberazione, di cammino verso una nuova consapevolezza di me.
Recitavamo a soggetto, improvvisando, anche per 10-15 ore di fila: un’esperienza che non avevo mai tentato prima. E il tema era dolorosissimo, la morte di un figlio, la necessità di salvarsi psicologicamente per poter ricominciare.
Ci sono alcune scene girate in una stanza d’albergo in cui il protagonista (interpretato da me) piange, si contorce sul letto, non riesce a parlare, a telefonare, nemmeno alle persone che ama di più, in una solitudine assoluta. Quelle erano circostanze estremizzate, naturalmente, ma rappresentavano bene qualcosa di me. Recitando d’istinto, specchiandomi in una sofferenza insostenibile, procedevo anche nel mio cammino personale.
Certo, gli orizzonti sono cambiati moltissimo, per me, dai tempi difficili dell’infanzia. Spesso ripenso ai miei amici di quando ero un bambino, e poi un ragazzo, alla periferia di Roma: la Magliana, vicino all’Aurelia. Erano ambienti aspri, degradati. Sarebbe bastato un nulla anche a me, per cadere in situazioni molto pericolose. E, conoscendomi, per non deludere, per farmi accettare dagli altri, forse sarei finito nei guai.
Adesso sono diverso, ma quella malinconia cronica dell’infanzia non mi ha mai abbandonato. Sono nato così. E ancora non riesco a sottrarmi ai momenti di tristezza senza ragione.
A differenza di tanti anni fa, so provare, con estrema nitidezza, anche le gioie della vita. Quando vedo il sorriso di Chiara, per esempio, quando prendo in braccio i miei figli. Quando vado con loro da Castroni, il nostro bar preferito, l’Eldorado dei dolci e dei confetti, ma anche della cioccolata, in verità…».
Raoul Bova (testo raccolto da Paolo Rossi Castelli per OK La salute prima di tutto di dicembre 2009)
TI POTREBBERO INTERESSARE ANCHE
Selvaggia Lucarelli: «Il dolore per un amore finito mi ha fatto perdere i capelli»
Luisa Corna: «I miei problemi li supero di corsa»
Meditazione e respiro profondo placano l’ansia
Iago Garcia: «Respiro col diaframma quando l’ansia mi assale»