Una luce negli occhi di mia moglie. Che rendeva superfluo il responso delle analisi che stringeva emozionata tra le mani. Ho saputo così che stavo per diventare padre. Quel figlio tanto desiderato stava arrivando a completare la nostra piccola famiglia appena costruita. E per questo, abbiamo deciso subito, si sarebbe chiamato Matteo. Che significa dono di Dio.
Per niente al mondo avrei rinunciato, pochi mesi dopo, ad assistere al parto in sala operatoria. Munito naturalmente di una piccola telecamera. Da incorreggibile uomo di televisione quale io sono, non avrei mai potuto non fissare con le immagini lo spettacolo più importante della mia vita. E appena è nato, l’ho accolto nel mondo cantandogli allegramente «Tanti auguri a te». Del resto quel giorno compiva il suo anno zero, no?
Il fatto è che mi sentivo incredibilmente tranquillo e sereno, com’è nella mia indole, nonostante stessi vivendo in prima persona il miracolo della vita. Almeno fino a quando l’ostetrica l’ha adagiato tra le braccia di mia moglie. Mi sono avvicinato a loro e lo specchio mi ha rimandato l’immagine dei nostri tre volti vicini. La nostra piccola famiglia, per la prima volta insieme. È stato quello per me il momento più emozionante, più ancora di quando ho sentito il primo vagito.
L’ANSIA DEI PRIMI GIORNI
E allora è stato un crescendo: seguirlo mentre gli facevano il bagnetto, controllare se in lui fosse tutto a posto. Mi sono perfino preoccupato per la sua carnagione che mi sembrava un po’ troppo scura, dovuta ovviamente ai tratti mediterranei che ha ereditato da noi due. L’infermiera mi ha chiesto ridendo da quanto tempo non mi guardassi allo specchio.
E poi il ritorno a casa. La porta che si chiudeva alle nostre spalle sanciva il vero inizio dell’avventura, ormai lontani dall’atmosfera protetta dell’ambiente ospedaliero. Chissà se avevamo capito bene quello che ci avevano spiegato. Chissà se avremmo ricordato tutto. I primi giorni Francesca e io ci consultavamo su ogni cosa. Poi a poco a poco ha iniziato a venirci tutto naturale: il bagnetto, il cambio del pannolino, la gestione dei piccoli pianti improvvisi. E intanto la nostra vita cambiava radicalmente i suoi ritmi, scandita completamente da quelli di Matteo. Non avevamo più i nostri tempi, ma i suoi. Le notti dormivamo poco perché lui ci teneva svegli, e bastava uno starnuto improvviso per farci cancellare impegni e appuntamenti.
All’inizio non è stato facile. Io non so come si faccia il babbo: ho perso il mio a soli 18 mesi, quindi non ho alcuna figura di riferimento con cui confrontarmi. Allora ho iniziato a seguire semplicemente quello che mi diceva il cuore. Del resto, sono sempre stato molto tranquillo, razionale ed equilibrato. E vivo la paternità alla mia età in maniera certo più matura e consapevole rispetto a un giovincello. Perché non dovendo più pensare a cercare il mio posto nel mondo, a sgomitare per farmi una posizione, posso serenamente concentrarmi su mio figlio. E godermelo alla grande.
Anche se non ha ancora due anni, insieme facciamo già tante cose: lo porto all’acquario a vedere i pesci che gli piacciono tanto, guardiamo i video su Youtube, giochiamo a pallone e perfino con gli utensili di uso quotidiano, che lo divertono più dei giocattoli. E quando mia moglie è occupata, non ho problemi a vestirlo, cambiarlo o fargli il bagnetto. Quante emozioni mi ha già regalato. Istanti che non dimenticherò mai, come la sera in cui ha mosso i suoi primi passi sul tappeto di casa, le risate in acqua quando cerco di insegnargli a stare a galla, gli occhioni tristi di quando l’ho portato per la prima volta all’asilo nido e il suo buttarmi le braccia al collo felice quando sono andato a riprenderlo. E chissà la prima volta che mi sentirò chiamare babbo.
DA GRANDE GLI DARÒ ALI E RADICI
La sua presenza mi ha regalato una serenità ancora maggiore. Oltre, ovviamente, a un inevitabile senso di responsabilità e di preoccupazione. Che per il momento riguarda solo la sua salute fisica: un capitombolo, un colpetto di tosse o il timore che infili le dita nella presa mi mettono già in allarme. Ma presto verrà il momento di insegnargli educazione e regole. Un proverbio canadese dice che ai figli bisogna dare ali e radici, e io dovrò imparare a farlo. Sempre con la complicità di mia moglie, che l’arrivo del bimbo ha ulteriormente rafforzato, come se avesse messo il turbo a un’auto già molto veloce. E se in futuro ne arriverà un altro sarà una gioia. Altrimenti Matteo crescerà come un figlio unico sereno e felice. Proprio come è stato per i suoi genitori.
Carlo Conti
Testimonianza raccolta da Grazia Garlando per OK Salute e Benessere dicembre 2015
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