Anche una semplice patatina fritta può avere il sapore della libertà, se riesci finalmente ad afferrarla in totale autonomia, senza l’aiuto di nessuno, dopo che per anni le tue mani paralizzate non hanno risposto ai comandi. Lo dimostrano i volti sorridenti dei sei giovani tetraplegici che sono tornati a mangiare e bere autonomamente grazie ad un “guanto” hi-tech, un esoscheletro robotico realizzato in Italia dai ricercatori della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa per aiutare le persone colpite da ictus e traumi spinali.
I sei pazienti, tutti di età compresa fra i 14 e i 30 anni, sono riusciti perfino a scrivere, afferrare una carta di credito e versare un bicchiere d’acqua, come dimostrano i primi esperimenti realizzati al tavolo di un ristorante e in altri contesti quotidiani. I risultati, ottenuti in collaborazione con l’università tedesca di Tubinga e il Guttmann Institute di Barcellona, sono pubblicati sul primo numero della nuova rivista del gruppo “Science”, Science Robotics.
La novità di questo esoscheletro indossabile è che si basa su un’interfaccia uomo-macchina molto semplice e non invasiva, che per essere posizionata non richiede complesse procedure chirurgiche. Basta una cuffia di elettrodi in testa per registrare l’attività del cervello e il movimento degli occhi in modo da cogliere i bio-segnali che esprimono la volontà del paziente: il sistema poi li traduce in semplici comandi di apertura e chiusura della mano, ripristinando un’adeguata e intuitiva capacità di presa. La facilità di utilizzo del dispositivo è stata potenziata dal fatto che l’intero sistema di registrazione dei bio-segnali è del tutto wireless e il sistema esoscheletrico è incorporato all’interno della carrozzina.
Questi risultati appaiono molto promettenti, ma gli scienziati del consorzio europeo sono tutti consapevoli delle necessità di nuovi studi clinici che coinvolgano una popolazione più ampia e con tempi di sperimentazione più lunghi, come spiega Nicola Vitiello, bioingegnere dell’Istituto di BioRobotica della Scuola Sant’Anna: «Soltanto grazie a una sperimentazione più estensiva sarà possibile capire come migliorare ancora le prestazioni dei vari moduli che compongono il sistema, ovvero il sistema robotico e la sua interfaccia con l’utente, e come pianificare una strategia di lungo periodo per portare questo tipo di tecnologie sul mercato».
Lo studio ha evidenziato anche un altro interessante aspetto, come spiega l’altra coordinatrice italiana della ricerca, la professoressa Maria Chiara Carrozza: «Nonostante i numerosi sforzi compiuti dalla bioingegneria, i sistemi robotici per la riabilitazione non hanno un livello di maturità tale da essere portabili, ovvero trasportabili con facilità. In questo studio, abbiamo voluto compensare questi limiti usando la carrozzina come una sorta di stazione di attracco dove alloggiare i pesanti moduli di attuazione (movimento), alimentazione e calcolo necessari al funzionamento dell’intero apparato. Nei prossimi anni – continua Maria Chiara Carrozza – possiamo immaginare che questo paradigma venga sempre di più esplorato e che quindi individui quadriplegici possano sempre di più trasformare la loro carrozzina in una preziosa “risorsa” per alloggiarvi ausili robotici ed informatici sempre più sofisticati, con l’obiettivo ultimo di migliorare la loro qualità della vita».
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